"Parlare di Musica è come ballare di architettura" Frank Zappa

29 mar 2016

RECENSIONE: ALUK TODOLO "OCCULT ROCK"




In una ipotetica classifica dei dieci migliori album di post-black metal (che forse un giorno stileremo) non metteremmo di certo questo “Occult Rock” degli Aluk Todolo. Anzitutto per il nome improponibile, che fra l’altro non mi ricordo mai, cosicché, quando li voglio ascoltare, non sapendo dove iniziare a cercare il cd nella mia collezione (dispiegata rigorosamente in ordine alfabetico), mi tocca sempre andare su internet, digitare “Occult Rock” (che mi rimane comprensibilmente più impresso) e risalire al nome della band (pensate voi). Ma poi, soprattutto, gli Aluk Todolo non sono una black metal band che si è data al post rock, ma forse l’incontrario.

Lo abbiamo già detto: il black metal è un linguaggio che, più di altri mutuati dal metal, è riuscito ad acquisire un carattere universale, ben sposandosi con l’ambient, l’elettronica, il post-rock, il post-hardcore, il dark, lo shoegaze ecc. Ritrovare stralci di black metal nella musica (rigorosamente strumentale!) di questo folle trio francese è dunque solo la dimostrazione dell’apertura di mente dei Nostri che, senza mai abbandonare il verbo imperante dell’elettricità, ricorrono ad un ampio ventaglio di soluzioni, che vanno dal post-rock (appunto!) al drone-ambient, passando dal kraut-rock, senza disdegnare il jazz, il noise, la psichedelia e progressioni di kingcrimsoniana memoria.

Non ci avete capito nulla, vero? Shantidas Riedacker (chitarra), Matthieu Canaguier (basso) e Antoine Hadjioannou (batteria) licenziano il loro terzo album nel 2012 e, dopo un paio di prove deludenti, ci consegnano il loro insperato capolavoro. “Occult Rock” è il loro manifesto programmatico: un doppio album, più di ottanta minuti, otto pezzi (dieci minuti cada uno) tutti legati fra di loro a comporre un unico spaventevole viaggio delirante (non a caso i nomi dei brani si limitano ad essere “Occult Rock I”, “Occult Rock II”, “Occult Rock III” ecc.). Di “occulto” vi è poco, in verità, e pure di “rock” a dirla tutta: non aspettiamoci dunque un prolisso rituale, bensì un viaggio allucinante destinato, durante l’ascolto, a farci perdere le coordinate spazio temporali.

Quanto ai contenuti musicali (che secondo gli autori dovrebbero descrivere la Creazione, ossia il passaggio dalla prima vibrazione alla materia) si può tranquillamente far riferimento ai generi sopra menzionati, considerando che i Nostri si muovono sui binari scoppiettanti di un flusso ipnotico e destabilizzante volto a disorientare l’ascoltatore, anzi a renderlo dimentico della sua realtà, imprigionandolo nelle anguste pareti del tunnel vorticoso che è la loro musica. Il modo di procedere non è però schizofrenico, non siamo di fronte a dei novelli Fantomas o Dillinger Escape Plane (lungi da noi!), in quanto ogni brano si muove con le proprie caratteristiche.

E così, se l’openerOccult Rock I” si fregia di uno spietato blast-beat e ossessivi riff in tremolo à la Burzum (con un intelligente uso degli effetti di chitarra che rasentano l’estasi panica della kosmische musik), il capolavoro assoluto lo troviamo nella successiva “Occult Rock II” che si fregia di controtempi ed un dinamismo ritmico irresistibile che, irrequieto, trasporta arpeggi elettrificati e potenti accordi sabbathiani (sempre volendo fare un parallelo black-metalliano, potremmo tirare in ballo il post-black metal dei Ved Buens Ende…, anche se il math-rock dei Don Caballero potrebbe essere un utile riferimento). Mille e mille variazioni di tema, fra rumorose jam psichedeliche, dissonanze a go go e persino suggestioni dark-western, fino ad arrivare al friggere di chitarre in salsa drone-ambient della conclusiva “Occult Rock VIII”. Il viaggio psichico è terminato, il cervello è fottuto.

Crea dunque delle visioni questa musica? Si! Ci dà delle emozioni? Si! Ci estranea e porta altrove sta musica? Si, si e sì! Ci annoia? Un po’. E’ dunque un capolavoro questo “Occult Rock”? Certo che sì! Ed allora dov’è che sta l’inghippo? Il problema è semplice e sempre lo stesso: dove cazzo lo troviamo nelle nostre vite incasinate il tempo e la concentrazione per poter ascoltare nella sua completezza (perché tutto d’un fiato quest’album va ascoltato, mica in pillole!) ottanta minuti di questa roba??

Suggerimenti per l’utilizzo: in macchina (magari non la mattina presto perché l’inizio sparatissimo non si confà molto con l’umore di chi si è appena svegliato; ma neppure la sera, a meno che vogliate farvi molto male dopo una dura giornata di lavoro); in casa durante una cena se e solo se si è compagnia di gente illuminata (magari però skippando il primo pezzo, che in effetti è un po’ molesto). Non in cuffia perché secondo me si tratterebbe di un inutile stimpanamento (inoltre le cuffie non permettono di agitarsi, saltare, fare su e già con la testa e muovere le braccia come richiesto da certi irresistibili passaggi). Comunque vada sarà un massacro per le orecchie.

Conclusioni in ordine sparso: Paul Chain aveva già inventato tutto. Ma non è che la lunghezza a volte cerca di compensare la mancanza di talento? Meglio quattro idee in ottanta minuti o venti in quaranta? E’ un bene che ogni barriera sia stata spazzata via oppure si stava meglio quando si stava peggio? Siamo fighi o siamo vuoti? Posso io spendere fette di ottanta minuti della mia vita ad ascoltare questa roba? Posso io spendere venti euro per non ascoltare un capolavoro che in fin dei conti lo è solo in senso teorico? Un album è bello anche quando non lo si ascolta mai? E’ giusto ascoltare un album più o meno una volta all’anno?

Comunque questa musica piglia bene, anche se non mi drogo (ma bevo molto alcool). Treni neri sfrecciano alla velocità della luce e mi investono. Vedo una luce nera in fondo al tunnel nero anch’esso (ma allora come faccio a vederla?). Starò forse impazzendo? A quale target di pubblico di rivolgono gli Aluk Todolo? Ma che cazzo vuol dire Aluk Todolo?